di Anonimo.

Fu nonno per fortuna a zittirmi, e lo fece con grande difficoltà, cercando di evitare di scoppiare ancora in una fragorosa risata. Se ne stava seduto sulla poltrona che noi nipoti chiamiamo presidenziale, di quelle grandi con i braccioli alti. Nonno era molto piccolo ed esile, cosicché la poltrona sembrava abbracciarlo, come un bimbo stringe il suo orsacchiotto. Aveva le gote tutte rosse, come quelle che ho io dalla nascita a causa di una meravigliosa quanto snervante timidezza. O quasi. Ma le sue erano frutto del rigonfiamento della bocca a causa della masticazione, del vino e del recente tentativo di sopprimere le lacrime causate proprio da una risata. Nonno non ci sentiva più bene da un pezzo e si era sempre rifiutato di portare gli apparecchi acustici. Così, nel sovrumano tentativo di leggere le labbra del suo interlocutore, cercava sempre un immediato contatto visivo. Al mio ingresso, trovò subito i miei occhi e, stabilito il contatto necessario, non fece altro che portare l’indice della mano sinistra davanti alla bocca, in segno del più totale e necessario silenzio. In un angolo mio cugino Vittorio lacrimava da un occhio. L’altro sembrava chiuso da qualcosa che, così da lontano, pareva proprio un cioccolatino spappolato.

Fabio sedeva al solito posto in mensa, solo. Adorava sedere a fianco della finestra, perché più che guardare verso l’interno, amava guardare fuori mentre le sue guance diventavano rosse per la luce che entrava di taglio attraverso le finestre. Poteva così nascondere meglio quella sua meravigliosa quanto snervante timidezza. O quasi. Chiunque lo avesse visto tra i suoi colleghi avrebbe detto che tutto era come al solito, nel suo aspetto quanto nel suo comportamento, occhio nero compreso. Ma un osservatore attento si sarebbe accorto che il giovane uomo stava immobile da circa un minuto con il gomito poggiato sul tavolo, la mano che tratteneva una forchetta piena di purè di patate e la mascella serrata. I suoi occhi parevano sospesi nel vuoto, immobili, solo il destro leggermente più chiuso a causa del gonfiore. Lavorava da circa quindici anni presso la fabbrica di cioccolato, nel reparto confezionamento. La sua mansione principale era tenere sul palmo della mano sinistra una piccola e sottilissima velina di alluminio, adagiarci sopra con la mano destra un minuscolo foglietto di carta oleata e sempre con la destra sovrapporre al centro un cioccolatino. La sinistra cominciava a chiudersi mentre la destra provvedeva con una torsione quasi impercettibile a chiudere la velina. Fabio sapeva incartare bene i cioccolatini, era il migliore del suo reparto ed era rapido come un prestigiatore. Vederlo era motivo di soddisfazione per chiunque. Era il migliore. O quasi.

Zio Antonio si era trasferito da cinque anni nel nostro quartiere e con lui aveva portato zia Angela, mio cugino Vittorio e un cane sovrappeso di nome Thor. E fu proprio grazie a Thor che scoppiò lo scandalo più tremendo che avesse mai colpito la mia famiglia. Zio e zia erano una coppia affiatata, si amavano a volte in un modo talmente sdolcinato, come due ragazzini. Lei portava spesso fuori Thor, che non era proprio un cane da appartamento. E fu in una di queste uscite che conobbe Alonzo, un giovane ragazzo argentino studente di medicina e padrone di Pepita, cagnolina meticcia con cui Thor andava tremendamente d’accordo. Zio Antonio li trovò insieme a letto che era inizio luglio, periodo in cui spesso lui se ne stava giorni via per lavoro. Il risultato fu una mascella argentina rotta in due punti; Alonzo non fece nulla per difendersi, assorbì il colpo con onore e non sporse denuncia per aggressione. Il paese è piccolo e non ci volle molto perché la notizia arrivasse all’orecchio di molti. Zio Antonio perdonò zia Angela per quella che descrisse come una sfortunata debolezza ma, sopportando a fatica le risate sommesse del paese nascosto dietro le persiane, fece promettere a tutta la famiglia che nessuno avrebbe più parlato di quella maledetta faccenda. Almeno in famiglia nessuno avrebbe dovuto mai azzardarsi a ricordare qualcosa di quell’evento. Pena la rottura della mascella in due punti. Il Natale seguente alla sfortunata vicenda decidemmo di passarlo tutti insieme a casa di mamma.

Il gomito di Fabio finalmente si sbloccò e, come uscito da un torpore di giorni, il suo sguardo tornò lucido e presente. Portò la forchetta alla bocca e continuò a mangiare in silenzio, come sempre. I suoi movimenti erano incredibilmente freddi, non delicati come quando incartava i cioccolatini. Ed il perché lui lo sapeva bene. La lentezza è una virtù rara di questi tempi e Fabio ne era affetto. A volte pare una maledizione. Per questo si era convinto troppo tardi di invitare Lucia, la ragazza più bella del suo reparto, ad uscire con lui; così tardi che Lucia frequentava già da mesi Fernando, un energumeno del reparto trasporti. Così, in un goffo tentativo sullo scadere del tempo, Fabio aveva cercato comunque di convincere Lucia ad uscire con lui ma la cosa non risultò gradita a Fernando che, per ribadire a sua superiorità animale, in una sera di ottobre sferrò un destro preciso sul viso di Fabio che cadde a terra al bar del paese, tra il biliardo e il tavolo da ping pong. Lucia non fece nulla e del resto nulla avrebbe potuto fare. Nei giorni successivi si limitò a rivolgere a Fabio un tenero sorriso che pareva bisbigliare “mi spiace, troppo tardi”. Finì il purè e pensò che lei aveva davvero un sorriso meraviglioso, sì. Ma che forse avrebbe fatto fatica a guardarla negli occhi. Ci voleva qualcosa allora, qualcosa che esorcizzasse quella che Fabio percepiva come una sconfitta. Ci voleva qualcosa di creativo e plateale, come solo un maschio ferito nell’orgoglio può concepire. Con un sorriso malizioso si congratulò con sé stesso per l’intuizione e si accorse, per fortuna, di essere davvero totalmente solo nella stanza. Lentamente si alzò, raccolse i rifiuti del pasto e sempre con proverbiale lentezza passò la mano sopra il pacco che aveva sottratto al reparto stampa e sul quale era stato seduto per tutta la durata del pranzo.

Mi avvicinai a mio cugino Vittorio che era dolorante e cercai di aiutarlo a togliere quello che effettivamente risultò essere un cioccolatino spappolato nel suo occhio. L’operazione di estrazione fu rapida e mio cugino l’avrebbe potuta benissimo fare da solo se solo non si fosse così terribilmente spaventato per la reazione fulminea di zio. Spedii mio cugino in bagno a sciacquarsi e cercai di ristabilire un contatto con la realtà. Notai mio zio seduto al tavolo in salotto con la faccia pietrificata e la mascella serrata in modo forzato e innaturale. Mio padre, davanti a lui, cercava di farlo calmare e di costringerlo a bere quell’amaro che fanno in campagna e che tanto aiuta rilassare i nervi. In cucina, attutito dai muri spessi del vecchio palazzo, potevo distinguere il pianto sommesso di zia Angela e la voce di mia madre che cercava di sopirlo. Per qualche minuto rimasi interdetto, con il cioccolatino spappolato in mano. Lo osservai per qualche istante: carta e cioccolato formavano una sola entità. Per fortuna la nocciola intera si era frantumata subito e si trovava sparsa in pezzi tra quella poltiglia e il pavimento sotto il mento di mio cugino, che altrimenti avrebbe perso l’uso di un occhio. Nonostante la curiosa situazione, mi venne l’istinto di estrarre da quella massa informe un pezzettino di carta oleata di cui intravedevo un angolo accartocciato. In quell’istante sentii un pizzicotto alla gamba: era nonno che cercava di attrarre la mia attenzione con il bastone. Lo guardai e lui, alzando la mano, mi diede un piccolo pezzetto di carta oleata, che di sicuro lo avrei letto meglio senza le macchie. Quindi appoggiai la massa di metallo e cioccolato sul tavolo del soggiorno e alzai il piccolo pezzetto di carta oleata per leggerlo. Ma decisamente non ad alta voce.

Ma vaffanculo, brutta troia, di Anonimo.

J.FOG.

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