13.000 giorni di Micah P. Hinson sulla Terra.

di jackfullofgrace.

“Perché si finisce comunque nei guai quando ci si mette lì a cercare di spiegare precisamente cosa significhi un documento mistico”.
Lester Bangs.

A Roma il 2 aprile è atterrato Micah P. Hinson col suo disco volante invisibile. Niente fari, niente luci colorate e Richard Dreyfuss con la sua montagna di purè.

Sia ben chiaro, non di vero alieno si tratta. Lui, per fortuna, è fin troppo umano. Sono Memphis e tutta la cultura musicale che si porta appresso ad essere anni luce lontano da qui. Sembra proprio che quel posto nel Tennessee sia rimasto l’ombelico di un mondo che chiamiamo musica blues, gospel, folk e rock & roll; con tutti i figli legittimi e non che queste quattro parole hanno partorito fra le pagine delle riviste di settore.

Hinson arriva proprio da lì, da quell’ombelico. Cresciuto poi nel cuore desolato e pianeggiante del nuovo continente, ad Abilene, in Texas. Letteralmente rigettato da una famiglia oltremodo conservatrice, ha preso il volo grazie alla droga, ad una modella di Vogue e al carcere: medaglie che, fin da tenerissima età, sul curriculum di unsinger/songwriter (adoro questa parola…) pare contino un sacco. Soprattutto se sei un maledetto centauro con la chitarra elettrica sulla spalla.

Che poi, a dire il vero, il nostro è cosa diametralmente opposta ad un maledetto centauro con la chitarra elettrica sulla spalla. Magro, al limite del rachitismo, Hinson è il ritratto di un nerd qualunque. Ricorda tantissimo il giovanissimo Bob Dylan, man of constant sorrow, che cantava le ballate di Woody Guthrie.

Di antieroi, si sa, il rock ne ha sfornati a profusione, ma nerd non se ne contano molti. Magari Elvis Costello. Johnny Cash aveva il mantello nero, lui fondi di bottiglia e la sigaretta con il bocchino. Sfido a trovare qualcosa di altrettanto bislacco e prodigioso insieme.

Perché ascoltarlo quindi? Innanzitutto per la sua voce.

Raccontare una voce è l’impresa più complicata. Una delle descrizioni che amo di più è quella di Daniel Durchholz nel suo Musichound Rock: The Essential Album Guide, dove racconta così la voce di Tom Waits:

It was soaked in a vat of bourbon, left hanging in the smokehouse for a few months, and then taken outside and run over with a car.

Che tradotto sarebbe: “era come immersa in un tino di whiskey, poi appesa in un affumicatoio per qualche mese e infine portata fuori e investita con una macchina”.

Facile, socchiudendo gli occhi, immaginare quella voce roca, profonda, giungere dal fondo della scala di una cantina in un negozio di liquori della California; ovattata come la testa dopo il colpo di un guantone da boxe con dentro un ferro di cavallo. Un pugno che in qualche modo ti attraversa, come quel brivido che si prova quando, dopo una mezza sbronza, si tenta con sforzo cabarettistico di mettere a fuoco un bicchiere o il sorriso di una ragazza, cercando di rimuovere il pensiero che poi dovrai pure guidare. E, infine, sulla strada di casa, tra un incrocio e l’altro, abbandonati i tuoi scatoloni di articoli, saggi, metodologie e breviari per coro a due voci, ecco finalmente la tua voce, insieme a quella che esce dagli altoparlanti.

Una voce, una bella voce, scava nel profondo, portando in superficie tutti quei significati del testo che un artista sa senza troppi fronzoli raccontare, come in un’intuizione, lasciando a noi il problema dell’interpretazione.

Ecco, la voce di Micah P Hinson è una di quelle che mi fa smettere in continuazione di scattare foto e porta con sé un dolore nascosto dietro una tranquillità innaturale. Una voce che unisce la vacillante intonazione e i ricordi amari di Nick Cave, quel modo di sussurrare la poesia di The Ghost of Tom Joad di Springsteen solo, nel suo studio di registrazione e l’ironia disillusa del migliore Johnny Cash, quello degli American Records. Per usare una bella frase ad effetto: una voce che non cancella ma benedice tutti i peccati del mondo, magari con un sorriso sornione dietro due fondi di bottiglia attaccati con lo scotch. Teatrale, quando rallenta, oppure sospesa e strozzata in gola. Quando la sua penna d’oca pensa da sola ai modi in cui lei tornerà indietro per ucciderlo. C’è una sorta di coscienza dismessa nelle sue canzoni, di placito dondolare di sentimenti oscuri. Come nelle foto con tanto contrasto, dove il buio serve alla luce e viceversa.

Poi c’è la musica. La musica delle canzoni è quello strano essere che mastica i significati che le parole esprimono e li sputa fuori trasformati. Li piega ad un principio sinestetico che proprio nella canzone, come micro unità drammaturgica, trova la sua massima espressione.

All’esame di maturità un professore di lettere molto accorto mi chiese se avvertissi l’esigenza di inserire i testi di Dylan, di Lou Reed o di Nick Cave nelle antologie scolastiche. Io riposi di sì e concordammo sul fatto che la musica poteva restare fuori perché soggetta a libera interpretazione. Ora posso dire che in parte mi sbagliavo. Solo in parte, perché la musica è sì quello strumento affilato e consapevole che innalza il testo poetico e lo arricchisce, lo sventra, lo schiaccia e ancora lo stira per farne uscire tutto il potenziale espressivo; ma è anche capace di evidenziare, se cambiata, nuovi orizzonti di significato del tutto imprevedibili.

Hinson maneggia con grande capacità generi diversi: dal rock al blues, passando per il country, con qualche piccolo rigurgito punk. Negli arrangiamenti è semplice, con poche timbriche tutte ricercate e dosate davvero bene. Nel punto di contatto tra la sua parola e la sua musica pulsa il cuore della sua arte: la chiarezza e l’onestà del dolore. Ascoltare Micah P. Hinson è, a conti fatti, un’esperienza sonora avvolgente. Vederlo dal vivo aggiunge, se possibile, qualcosa in più. Un artista onesto, senza fronzoli, apparentemente fedele a sé stesso. Se finge, insomma, lo fa veramente bene. Sulla chitarra viaggia leggero e convive con lo strumento nel rapporto carnale e feticista quasi come un musicista jazz. Ogni tanto il fumo della sua sigaretta si confonde con il groviglio di corde acuminate che spunta dalla paletta e con i lunghi feedback dell’amplificatore. È proprio questo il suono che mi piace. Spero che abbia la forza di non fagocitare la propria energia e di non essere inghiottito.

Notevole la band che lo ha seguito nelle date italiane, ovvero Francesco Cerroni (basso), Andrea Ruggiero (violino) e Simone Prudenzano (batteria). Scelta ottima a mio avviso, per compattezza di suono, feeling e carattere. Saper accompagnare una personalità artistica forte è un’arte ed è una di quelle cose che, più che la musica, te la insegna il teatro.

 

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *